Sanità

LO TSUNAMI DEL COVID NEI RICORDI DEI SANITARI DI BOLZANO

Sei professionisti raccontano la pandemia cinque anni dopo

Foto: Italpress ©

“Il ricordo più vivo sono le telefonate fatte ai famigliari, soprattutto quando le cose andavano male e quando il saluto era impossibile. Sembrava di stare in un film, era una situazione paradossale, una guerra. Se poi parliamo di respiratori, abbiamo dovuto fare delle scelte difficili”. In queste brevi frasi del medico anestesista e rianimatore dell’ospedale di Bolzano, Elisa Bresadola, è racchiusa la ricostruzione dei momenti più drammatici vissuti dagli operatori sanitari dell’ospedale di Bolzano cinque anni fa, quando l’epidemia da Covid19 ha investito l’Alto Adige. Il territorio è stato uno dei più martoriati dalla pandemia, con 279 decessi registrati nei soli primi quattro mesi del 2020 (dati Istat).
“Avevamo paura – prosegue – non tanto per noi, ma di portare a casa la malattia; paura di contagiare altri. La chiamavano la malattia dei ‘boh’, di cui forse ancora oggi abbiamo capito poco”. L’apprensione per qualcosa che non si conosceva emerge dalle parole di Marc Kaufmann, responsabile servizio di terapia intensiva dell’ospedale altoatesino.”Il mio primo ricordo – afferma – sono le voci dei colleghi della Lombardia che ci chiamarono per dirci di prepararci in ogni modo perché stava arrivando qualcosa che non avevamo mai visto”.
Della mancanza di preparazione iniziale per quei tragici momenti parlano anche gli infermieri, in prima linea fin da subito per fare gli esami diagnostici, contenere i contagi, aiutare in ogni modo i malati. “All’università non ci hanno mai preparati a mettere le salme nei sacchi, né e a disinfettarli. Siamo riusciti a fare tutto grazie al lavoro di team”, chiosa Verena Moling.
In alcuni casi, la pandemia ha inciso profondamente sulle scelte di vita familiare degli operatori sanitari chiamati a fronteggiarle. È il caso dell’infermiere Sonny Brunoro, che ha inizialmente scelto di vivere sperato dalla moglie incinta per evitare di contagiarla. “Lavoravo con molta tensione – rammenta – cercando di non ammalarmi e di aiutare le persone. L’idea di mollare ogni tanto c’era, dipendeva dal contesto giornaliero: magari accudivi una persona per tutto il giorno e alla sera non ce la faceva. Altri che invece riuscivano a guarire ti davano le energie per andare avanti”.
E se per il medico specialista di anestesia e rianimazione Elisabeth Gruber ha prevalso su tutto il senso del dovere, e la consapevolezza del fatto che “in quel momento c’era bisogno del mio lavoro e della mia professionalità”, per l’infermiera Alessia Zampedri il ricordo ancora vivo è il bisogno di aria alla fine di ogni turno. “A volte tornavo a casa e non mangiavo, ma andavo direttamente sul balcone a respirare l’aria fresca: dopo un intera giornata con mascherina, tute, visiera- dice – avevo bisogno di aria”.

27 Febbraio 2025


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